Tanti tipi di silenzio

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il silenzioC’è il silenzio del mattino e quello dopo la domanda “Chi vuol fare il segretario?” all’esame di Maturità. C’è il silenzio davanti alla tv e quando scegli il vino al supermercato e il silenzio quando guardi fuori dalla finestra e non c’è nessuno in strada. Il silenzio d’agosto con la luna piena e quando ti tappi le orecchie da bambino per non sentire i tuoni del temporale. E poi c’è il silenzio dopo il tuffo in mare, quando sei sott’acqua e quello del compito in classe. E il silenzio dopo un “Mi ami?” e calcoli il tempo della risposta. E ogni volta che un silenzio termina qualcosa cambia nella vita di ognuno.

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Leggerissimi

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Sle Piagge Pisaono appena scesi dalla macchina, due anziani, marito e moglie, vestiti un po’ troppo eleganti per stare tra gli alberi in riva all’Arno, ma forse mi sbaglio, anche gli alberi sono vestiti bene, è primavera. Lui le prende la borsa per permetterle di accomodarsi il giacchetto bianco, tiene la borsa come può tenerla un uomo, imbarazzato come se avesse tra le mani un animale pronto a scivolare via. Poi gliela porge e anche il braccio, aspettano che passi il runner sudato e si avviano per il viale, leggerissimi.

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La voce dell’Arno

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piena dell'ArnoVederti lì, a pochi centimetri, che cerchi di salire gli scalini dei tuoi argini è strano. Ma soprattutto non avevo mai sentito la tua voce cantare, mentre scivoli tra i piloni dei ponti e li accarezzi. I ramoscelli si sono organizzati in gruppi idrodinamici, sembrano prue di navi a due dimensioni e limitano i danni abbandonandosi alla tua corrente. Il cormorano si tuffa, sta sotto due minuti e poi risale senza pesci: sotto non si vede un tubo, meglio il mare e se ne va. La gente ti guarda dai ponti come se non ti avesse mai visto ed è proprio così. Non ti hanno mai visto e quando tornerai dieci metri più in basso non ti vedranno più, fino a quando ti sveglierai di nuovo e si accorgeranno che ci sei per via delle scuole chiuse ai loro figli.

La piena dell’Arno.

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Pisa, 31 agosto 1943

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bombardamento pisaFra poche ore, il 31 agosto 1943, bombarderanno la mia città e ci saranno più di mille morti. Gli operai della Saint Gobain, della Piaggio, i ferrovieri, i postelegrafonici, i morti annegati, sì annegati, nel rifugio sotto la stazione. Vollero bombardare perfino i morti, quelli del cimitero monumentale, ma dicono sia stato un errore. I bambini, i vecchi, quel ragazzino amico di mio padre da bambino. Mio padre che per tutta la vita tornò a salutare la casa col giardino dove avevano giocato insieme ed era morto. Vi vorrei baciare uno ad uno.

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Gli orologi di Coltano

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Mio padre nel ’46 vendeva orologi ai prigionieri di Coltano.

Il padre di un suo amico aveva un negozio di orologiaio e il figlio prendeva gli orologi dal negozio, non ho mai capito se di nascosto o no, e li dava a mio padre che li andava a vendere ai prigionieri nel campo. Mi sono sempre chiesto cosa se ne facessero di un orologio i prigionieri di Coltano. Certo avranno avuto altri problemi piuttosto che guardare l’ora. Mio padre mi diceva che glieli passava attraverso le reti del campo e loro lo pagavano in amlire. Mio padre non era ancora maggiorenne e quello era un buon metodo per arginare la fame che c’era in quel tempo.

Il tempo non passa mai quando sei prigioniero, l’unica cosa che dava speranza a quegli uomini era l’orologio che segnava lo scorrere dei minuti e dimostrava che in quella fissità di giorni tutti uguali il tempo passava lo stesso e un giorno quelle reti sarebbero cadute e la libertà sarebbe tornata anche per loro.

Mio padre nel ’46 vendeva orologi ai prigionieri di Coltano…

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Il primo bacio del libeccio

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la prima libecciataSono fiero del mio giubbotto blu scuro di jeans col colletto rialzato e dei miei quattro anni. Non so se sono tanti o pochi perché non so contare, però so farli con le dita, anche se fatico a nascondere il pollice dietro il palmo della mano.

Qualcosa mi spettina i capelli, mi entra dappertutto, si chiama vento mi dicono. Ma questo non è come tutti gli altri venti, si chiama libeccio, è quello più forte, mi dicono, più di tutti. E gli scogli di Marina, quelli li conosco, e gli scogli – dicevo – ora capisco perché sono lì, proprio lì. Le onde colpiscono la prima linea, ma non si fermano e riprendono forza e colpiscono dove siamo noi e gli spruzzi arrivano addosso a noi. Non ho mica paura sono con babbo e mamma, però sono felice che ci siano anche gli scogli con noi.

Le onde cambiano nome quando c’è il libeccio, mi dicono, si chiamano cavalloni perché scavalcano le barriere degli uomini e arrivano alle case come i cavalli che saltano un ostacolo.

Mi dicono di passarmi la lingua sulle labbra e io lo faccio e sento quel sale, e mi dicono che è il bacio che dà il libeccio e che lascia quel sapore.
Non ho mai più sentito un bacio così.

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Il tabaccaio che mi ha voluto bene

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Ieri mattina sono andato a pagare la tassa sui rifiuti e a chiedere informazioni. C’era molta gente e il mio bigliettino segnava 139. Ogni tanto lo guardavo per vedere se cambiava ma il numerino rimaneva 139. Speravo, che so, in un 134 ma mi sarebbe andato bene anche un 136. Il sogno era scendere sotto il 130 ma questo sarebbe stato chiaramente impossibile. Dopo un bel po’ è scattato il 139 sul tabellone elettronico e sono entrato.

Una signora gentile mi ha spiegato che potevo pagare il 30% in meno, ma non avendo fatto domanda avrei dovuto pagare tutta la cifra. Però mi ha dato la lista dei tabaccai convenzionati dove non avrei speso l’euroeddieci di commissioni. In cambio le ho lasciato l’immutabile e coerentissimo bigliettino 139 e sono andato al tabaccaio convenzionato. Uomo gioviale di circa sessant’anni, mentre lavorava sul mio pagamento al computer ha visto che fissavo un punto dietro di lui. Era un teatrino con delle figure, sorpresa di un ovetto Kinder, che stava sullo scaffale tra le sigarette e i grattaevinci. L’ha preso e mi ha chiesto: “C’hai un bimbo?” (trad. “Hai procreato un discendente, vero? Altrimenti perché fisseresti con evidente desiderio di possesso la sorpresa di un ovetto Kinder?”).

“… Ehm… n-no” (trad. “In effetti non ancora e ciò un po’ mi imbarazza”).

“Deh, fallo!” (trad. “Poffarbacco, procrea una discendenza, non vorrai andare avanti in codesta maniera!”).

Mi ha regalato la sorpresa e me l’ha messa in un sacchetto perché non si sciupasse. Io mi sono sentito voluto bene, anche se il tabaccaio non l’avevo mai visto in vita mia.

Guardate la foto della sorpresa; non è bella?

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La gaffe della bibita gassata marrone

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Premessa: questo post è in parte scritto in lingua pisana perché è molto più espressiva dell’italiano standard.

Sta imperversando in tivù e alle radio lo spot di una famosa bibita gassata marrone con una bambina sedicente pisana che spiega perché è ottimista.

Ecco le ragioni:

  • Va in vacanza dalla nonna invece che al resort (ma che parole conosci? Hai studiato alla Sorbona?!)
  • Mangia la pasta alla pummarola (a pisa non si dice così, si dice ‘ar pomodoro’)
  • Va in bici invece che in supermacchine (hai diecianni bambina!)
  • Preferisce la pizza al sushi (chi l’avrebbe pensato?)
  • Opta per il panino al salame invece del caviale (ma quale bambino mangerebbe le uova crude di un pesce russo?)
  • Infine, incredibile, preferisce mangiare a casa il ragù della mamma piuttosto che andare alle cene di gala: ma cosa fa ir tu’ babbo, l’ambasciatore?!

Il succo dello spot è che puoi fare una vita di m… basta però che tu continui a bere la bibita marrone gassata, succeda quel che succeda.

A parte che se fosse la mi’ figliola gli darei subito du’ ceffoni solo per come parla e per l’accento, e poi chiederei il divorzio perché una bimba pisana non può parlare così, dev’esse’ un ‘corno’.

E poi, la gaffe clamorosa della bibita marrone: una bambina pisana non può avere il nome della santa protettrice di Livorno, Giulia. Con tutto il rispetto, cazzo!

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