
Il falco di via Spartaco Carlini

Insegnante e scrittore
Letture scuola primaria
Scrivere e pubblicare non coincidono. Si può scrivere molto e pubblicare poco o addirittura non pubblicare. Allora ti chiedi chi te lo fa fare. Ma anche quando pubblichi a volte ti fai la stessa domanda. Chi me lo fa fare?
Mi ha scritto una maestra pugliese che ha fatto leggere ai suoi alunni ‘C’è un ufo in giardino!‘ (Battello a Vapore). A un certo punto c’è una scena in cui Mery, la ragazzina protagonista che soffre di una grave forma di allergia, deve mettersi una tuta per uscire ma si vergogna. Alllora i suoi amici Francesco e Antonio, per convincerla, si mettono loro una tuta come la sua e la fanno uscire con loro.
Un’alunna di questa maestra ha la leucemia e doveva venire a scuola con una mascherina. Col passare dei giorni un po’ alla volta tutti i suoi compagni di classe hanno cominciato a presentarsi a scuola con una mascherina come la sua.
Non c’è bisogno di fare bei discorsi sulla solidarietà e sull’amicizia, rimarrebbero lì e chi ascolta troverebbe più interessante ficcarsi un bell’indice in una narice in cerca di tesori nascosti.
Un gesto silenzioso e una mail dalla Puglia invece cambiano tutto: ecco chi me lo fa fare.
S
Bowie l’aveva già vissuta quell’esperienza, anche se non c’era mai stato nello spazio.
Con quanta verità ha cantato quella canzone il comandante Hadfield, in mezzo al nulla tra la terra e le stelle! La stessa con cui la cantava Bowie in uno studio di registrazione poco illuminato o a casa sua quando l’ha scritta.
Le stelle sembrano veramente differenti da qui, e Hadfield lo può dire con certezza perché lo constata mentre lo dice. Ciò che vede è ciò che vedeva Bowie quando chiudeva gli occhi immaginando cosa osservava il protagonista della canzone.
L’artista è quello che quando chiude gli occhi fa esperienza di ciò che noi vediamo quando li teniamo aperti.
E perciò non puoi pensare che un cosino di quattro anni non si avvicinerà e non ti chiederà come se fosse la cosa più logica: ‘Mi porti con te sulla tua nuvola?’
In quel momento hai la certezza che tutto è possibile e che ce lo puoi portare veramente. Ma è solo un lampo, poi torni adulto e non è più così.
Vorrei parlarvi seriamente(?) di umorismo in letteratura. A volte la letteratura umoristica viene considerata un genere minore, una specie di consolazione al trambusto della vita e ai suoi inciampi. Spesso, soprattutto in questi tempi non facili, quando si presenta un libro umoristico si sente commentare che ce n’è bisogno in questo momento, come se in altri momenti la letteratura umoristica non fosse necessaria.
Invece no. L’umorismo, e sua madre l’ironia, non sono suppellettili create da qualcuno per mostrarle in salotto come una ceramica antica, o un bell’accessorio per addolcire l’amarezza inevitabile della quotidianità. L’umorismo, e sua madre, sono un modo di guardare la realtà.
Perché la realtà si guarda con gli occhi, si ascolta con le orecchie, si tocca con le dita, ma si conosce col Cuore. Quando un bambino nasce, praticamente è cieco, sordo e muto. Eppure conosce la realtà, cioè che sua madre gli vuole bene.
Ci sono cose che corrispondono immediatamente al nostro Cuore, come il bene della madre appena si nasce, e l’umorismo è una di quelle. Non si tratta della risata per dimenticare il tran tran che quasi mai corrisponde ai nostri desideri, ma del riso o del sorriso che nasce quando ciò che leggiamo ci corrisponde, sembra fatto apposta per me che leggo. L’umorismo muove alla gioia quando mi riguarda direttamente e mi fa capire che tutto può essere positivo, specialmente la sventura. Se ci fate caso si ride di più quando ai protagonisti della storia accadono fatti disgraziati. Ma non si tratta di cinismo di chi legge. È che guardando la realtà con la lente dell’umorismo, anche gli eventi dolorosi appaiono per quello che sono: delle prove che giungono per far crescere chi le affronta, per fargli conoscere la realtà, quella vera, cioè che tutto è positivo. Altrimenti che sfiga ragazzi!
E infatti piangono.
Però in classe sono sole, mentre piangono e puliscono. Ognuna pulisce un’aula. Poi, quando hanno finito, prima di uscire, si asciugano le guance ed escono come se niente fosse. Così nessuna si accorge che l’altra ha pianto di malinconia.
Fino alla sera dopo, quando ci sarà di nuovo da pulire e piangere.
E poi dicono che la malinconia non è un lavoro usurante.
Le stelle propriamente dette, le lucciole e le gocciole d’acqua sulle foglie.
Le stelle propriamente dette per osservarle si guarda in alto e quando ci appaiono di notte, magari d’estate in montagna senza luci attorno, sono così belle viste tutte insieme che si dimentica di quanto dovrebbero spaventarci.
Le lucciole ci sono solo di maggio e sono stelle particolari perché si accendono e si spengono come un cuore che batte. Per osservarle si guarda in basso e il cielo stavolta è il terreno dove si muovono.
Le gocciole d’acqua sulle foglie non brillano se non le guardi in un certo modo. Se non le guardi in quel certo modo sembrano solo gocciole d’acqua sulle foglie, appunto. Ma quando stanno per cadere a terra e si sporgono dalla foglia, la luce delle stelle del cielo le illumina e le fa brillare.
Poi cadono a terra e bagnano le lucciole ed è così che i tre tipi di stelle diventano una cosa sola.
Che abbiamo tutti da guardare il mare?
È piatto, color bianco, tutto uguale.
Non c’è una nave o barca o balena. Non c’è il sole al tramonto, manca ancora troppo tempo, non c’è un faro, che uno dice “Guarda il faro, ora non serve più ma c’è ancora, ora ci sono i satelliti, ma il faro è ancora lì. Bello però, anche se non serve più”
Ma non c’è nessun faro. Non c’è uno scoglio che spezza quel bianco uniforme che potresti dire “Quello scoglio è un pericolo per le barche”. Non c’è nemmeno qualcuno che nuota, che potresti dire “Se annegasse lo salverei e diventerei un eroe e quella bionda dell’altra panchina mi ammirerebbe”.
E allora cosa abbiamo tutti da guardare come se ci aspettassimo qualcosa? La gente anche di fronte al mare più piatto e insignificante guarda con la massima attenzione perché si aspetta qualcosa da un momento all’altro, qualcosa che cambierà il mondo. Non ho altre spiegazioni, altrimenti non avrebbe senso guardare in quel modo il mare.
È la cosa più infinita che l’uomo può toccare, e solo qualcosa di infinito può cambiare il mondo.
Il Corriere della Sera ha indetto un concorso per un racconto, chi vince verrà pubblicato col Corriere cartaceo nella collana ‘Corti di carta’.
Io ho scritto un racconto che si intitola come questo post. L’ho scritto pensando ai miei studenti e a una canzone dei Coldplay che amo molto, Yellow. Se volete leggerlo e votarlo sul sito del Corriere lo trovate a questo link.
La vittoria non dipende dai voti che riceverò perché chi decide sono solo i giornalisti del Corriere, però ci terrei a sapere se vi piace o no e che votiate secondo questo criterio e non ‘a simpatia’.
Fatemi sapere, grazie. La canzone è al link che vi incollo sotto.
Il padre di un suo amico aveva un negozio di orologiaio e il figlio prendeva gli orologi dal negozio, non ho mai capito se di nascosto o no, e li dava a mio padre che li andava a vendere ai prigionieri nel campo. Mi sono sempre chiesto cosa se ne facessero di un orologio i prigionieri di Coltano. Certo avranno avuto altri problemi piuttosto che guardare l’ora. Mio padre mi diceva che glieli passava attraverso le reti del campo e loro lo pagavano in amlire. Mio padre non era ancora maggiorenne e quello era un buon metodo per arginare la fame che c’era in quel tempo.
Il tempo non passa mai quando sei prigioniero, l’unica cosa che dava speranza a quegli uomini era l’orologio che segnava lo scorrere dei minuti e dimostrava che in quella fissità di giorni tutti uguali il tempo passava lo stesso e un giorno quelle reti sarebbero cadute e la libertà sarebbe tornata anche per loro.
Mio padre nel ’46 vendeva orologi ai prigionieri di Coltano…
Questo è un mio racconto di Natale per bambini inedito. Scaricalo pure e buona lettura. Se vuoi sapere di più sui miei libri clicca il pulsante sotto, grazie!
Racconto di Natale per bambini
Il mondo litiga
B. pensò che non c’era niente di più adatto di quel treno per il suo riposo. Dopo tutti quei giorni di lavoro era in un bello scompartimento con un uomo, una donna dall’aria nervosa e un bambino con la faccia seria. Non era un granché per essere la vigilia di Natale, ma non gli importava. Tutto era riposante dopo tutti quei giorni di lavoro.
La madre, se era la madre, si rivolgeva al bambino con gesti veloci, come se volesse fare qualcosa per lui ma ci ripensasse sempre all’ultimo momento. L’uomo leggeva qualcosa sul cellulare tenendolo a una certa distanza come fa chi ha bisogno di un paio di occhiali da lettura. B. anche se stanco, fu incuriosito dal bambino. Aveva nelle mani l’ultima console elettronica – B. La conosceva bene – e non la guardava neanche. Qualunque bambino non avrebbe avuto altro pensiero che giocarci, ma quel bimbo fissava un punto sul sedile vuoto di fronte. La donna si accorse che B. guardava il bambino e gli si rivolse.
“È un po’ serio” disse con un mezzo sorriso, quasi a giustificarlo. B. annuì: che errore! La donna ora non avrebbe smesso di tormentarlo per tutto il viaggio. Infatti riprese.
“È molto… deluso”. B. annuì ancora.
“Gli abbiamo appena spiegato una cosa: vero Martino?”. Il bambino annuì in silenzio. Ma alla donna non bastò.
“Cosa hai saputo? Diglielo al signore”. Il bambino non aveva nessuna voglia di parlare, tantomeno con uno sconosciuto, però obbedì alla madre.
“Babbo natale non esiste”. La donna sembrò soddisfatta.
“Ormai era pronto per saperlo. Pronto” ripeté quella parola più per il bambino che per B.
B. si voltò verso il finestrino ma nel buio della campagna non si vedeva nulla, né in cielo né in terra, né lampioni né stelle. Per fortuna la donna non parlò più e si addormentò. L’uomo accanto a lei sembrava estraneo a tutti loro e anche al treno, come un’immagine trasmessa dallo schermo di una tv, apparteneva a un altro universo. Il bambino posò la console sul sedile e abbassò la testa. B. pensò che si fosse addormentato, invece vide una lacrima che cadeva dalla guancia. Si avvicinò al bambino facendo attenzione a non fargli capire che si era accorto che piangeva e si rivolse a lui:
“Ti dispiace per quella cosa che ti hanno detto?”. Il bambino scosse la testa.
“No. Piango perché il mondo litiga” e fece un gesto con la mano per indicare il mondo. “Avevo chiesto a Babbo Natale che il mondo smettesse di litigare e invece mi hanno dato quella” indicò la console.
B. tirò fuori da una tasca della giacca qualcosa e lo passò al bambino.
“Mettiglielo lì accanto” disse indicando la donna. Era un fiore bellissimo, una gerbera fucsia. La donna si svegliò e la prima cosa che vide fu il fiore. Sorrise – era il suo fiore preferito – lo annusò e si girò verso l’uomo. Lui distolse lo sguardo dal telefono e ritornò uomo di carne e non immagine soltanto. Lei lo baciò sulla guancia. Il bambino guardò B. ridendo.
“Tu sei…”
“Shhhhh, non dirglielo. Non sono ancora pronti per saperlo”.
Macché: due violini, una viola, un violoncello e un pianoforte.
Vecchioni spiega che quel concerto sarà un dialogo con Dio a tutto campo. Sente la nostalgia di qualcosa Vecchioni e lo urla anche quando canta sottovoce. Mette parole sue su musica di Ciajkovskij, mette musica sua su parole di Saffo e poi canta ‘Vissi d’arte’:
“Nell’ora del dolore,
perché, perché Signore,
perché me ne rimuneri così?”
Tutti noi cantautori dobbiamo tantissimo a Puccini, dice.
Una donnina dietro di me ripete il testo di ‘Luci a San Siro’, come quelle vecchiette che ripetono le parole del prete durante la messa quando non si dovrebbe. Sto per ucciderla ma smette in tempo per evitare una fine dolorosa.
Finisce con Samarcanda. E’ il più bel concerto che gli abbia mai sentito fare. Due violini, una viola, un violoncello e un pianoforte.
E il suo cuore.